Corpo, architettura, dominio linguistico. Le prose di Valerio Magrelli

Della recente raccolta di prose di Valerio Magrelli, Nel condominio di carne, va detto che struttura il procedere ironico di una indagine e regesto minuzioso sugli eventi fisici dell’io, sui disturbi i ricoveri le convalescenze le mutazioni di una architettura cellulare che, nel corso narrativo, da corpo e organi e sangue diventa allegoria del co/dominio sociale, dello spazio condiviso, alterato o minaccioso; e della stessa anatomia del linguaggio comune, spossato e spostato di continuo dalla febbre del senso-non-senso.

In 55 ’stanze’ di narrazione, metanarrazione e aneddoto, il Condominio si edifica come camera delle meraviglie del grottesco quotidiano. Le metamorfosi dei/nei luoghi (Parigi, Gerusalemme, Atlanta, Roma), quelle di improvvise personae (Ensor, Giacometti, i Curie, Tycho Brahe), quelle delle parole («alfabeto Morse: “forse Morte”») e quelle dei corpi, dei traumi squadrati dallo sguardo, sovrappongono una carta millimetrata o mappa allegorica a ogni punto-puntura della percezione. Tutto è pretesto per distogliere lo sguardo dal centro del male non rimuovendolo ma stanando il soprassalto di significato che implicitamente covava.

Ogni visione di un dolore particolare è in questo modo un potenziale riorientamento della visione del dolore (del fatto di essere) in generale. Il testo funziona da strumento di conoscenza, come in generale tutta la scrittura metaforica/metamorfica di Magrelli, e in
parallelo costituisce – più di altre sue pagine precedenti – un esempio di trasparenza dello sguardo sul male. O, con sintesi più pronunciata: sguardo-dolore.

Alcune prose di Esercizi di tiptologia potevano preludere a una simile efflorescenza di micro-strutture fra il ghigno angelico e l’innocenza elencativa del dannato, che affabula narrando i disastri del corpo. Ma un differente scatto di stile – decisamente materico – sembra essersi innestato nel laboratorio dell’autore.

Nel condominio di carne dialoga con una linea francese, anche solo per dedizione ai prismi della prosa (Ponge, Michaux, Bonnefoy, perfino Fargue) ed è allo stesso tempo forse
impensabile fuori della diversa duttilità etimologica della lingua italiana (qui nelle ‘aree’ medica, scientifica, e nelle ibridazioni felici con altre lingue): una plastica sottoposta a wit, gioco,
bisticcio. Tutto ciò fa del libro un figlio legittimo dei ‘lumi’ di Italo Calvino (Palomar) e insieme marca una differenza che risiede nel lavoro poetico di Magrelli. La comicità volontaria del corpo torturato scrivente è infatti lo spin di ininterrotte trasformazioni del tessuto verbale; spirale delle sue fughe prospettiche. La quantità di ombra che se ne genera, pur utile a sua
volta alla osservazione delle cose, opera una sintesi – che calviniana non è – con l’area ‘cool’, fredda, dell’espressionismo recente: ossia con la vessata (ma utile) categoria del post-human.

D’altronde, anche da questa categoria Magrelli si svincola con leggerezza (e si ripensa a Cavalcanti che oltrepassa in un salto le offese dei sepolcri): sottotraccia nel testo brilla infatti – forse centrale più di ogni altro carattere – un implicito pronunciamento anti-Sade e anti-Masoch. Sembra la radiazione di fondo che nutre ogni pagina.

[Articolo pubblicato a stampa su «l’immaginazione», n.205, mar.-apr.2004, pp. 48-49]


Questo articolo si può citare nel seguente modo:
Marco Giovenale, Corpo, architettura, dominio linguistico. Le prose di Valerio Magrelli, in «Italianistica Online», 5 Giugno 2004, http://www.italianisticaonline.it/2004/magrelli/

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