Ancora sul Consiglio Superiore della Lingua Italiana
Luca Serianni interviene sulla proposta di istituzione di un Consiglio Superiore della Lingua Italiana (CSLI), presentata dal sen. Andrea Pastore.
[Pubblicato in «Lid’O - Lingua Italiana d’Oggi», Roma, Bulzoni, anno II, 2005; qui riprodotto per gentile concessione dell’Editore e in accordo con il direttore della rivista Massimo Arcangeli].
Il primo numero di «Lid’O» si è aperto con quattro interventi dedicati alla proposta di un Consiglio Superiore della Lingua Italiana (CSLI), presentata in una Commissione parlamentare dal senatore Andrea Pastore e a tutt’oggi (aprile 2005) non approdata in aula: un articolo d’apertura del direttore Massimo Arcangeli, un’intervista dello stesso Arcangeli al sen. Pastore, un articolo di Lucio D’Arcangelo, responsabile tecnico-scientifico del progetto, un articolo di Leonardo Maria Savoia, presidente della Società di Linguistica Italiana e chiamato a rappresentare le riserve sollevate dalla grande maggioranza del mondo accademico (in appendice all’articolo, pp. 50-52, è molto opportunamente riprodotto il «Nuovo testo proposto dal relatore per il disegno di legge N. 993»). Segue un saggio di Tullio De Mauro (Cari italiani, come state parlando?, pp. 55-70), che, pur non toccando la questione del CSLI, affronta col consueto respiro critico temi ad essa strettamente connessi e in grado di condizionare una valutazione complessiva nel merito.
Proprio la ricchezza di informazioni e di punti di vista ricavabile da «Lid’O» mi permette di rinviare il lettore a quella sede per la storia della questione e il ventaglio delle posizioni espresse e di intervenire in forma schematica, riunendo le mie considerazioni in tre punti: 1. Premesse sullo “stato di salute” dell’italiano oggi; 2. Questioni da accantonare nell’esame della proposta del CSLI, o perché superate ovvero perché condivise o condivisibili universalmente; 3. Opportunità dell’istituzione del CSLI e sue possibili funzioni.
1. Ogni volta che, al termine di una conferenza o in un’intervista, mi si chiede un parere sulla salute dell’italiano e sui presunti mali che lo minaccerebbero (primo fra tutti la “morte del congiuntivo”), devo dichiararmi in gran parte d’accordo con le idee espresse in varie occasioni (e anche nell’articolo di «Lid’O» sopra ricordato) da Tullio De Mauro. Anche a mio parere è lecito affermare che l’italiano da una parte è finalmente riuscito a conquistarsi un proprio spazio e un proprio prestigio sovrallocale rispetto a idiomi che nei secoli scorsi hanno rischiato di sopraffarlo, o almeno lo hanno pressoché escluso dalla comunicazione quotidiana: i dialetti; dall’altra, riesce ancora a fronteggiare discretamente l’assalto dell’idioma più proiettato in dimensione planetaria nel corso di questo XXI secolo, l’inglese. Infatti:
- è innegabile l’espansione dell’italofonia rispetto all’esclusivo uso dei dialetti caratteristico dell’Italia solo cinquant’anni fa; si può ben dire che, da questo punto di vista, l’Italia si sia allineata ad altre grandi nazioni con una storia unitaria molto più antica della nostra. Anzi, proprio la diffusa sicurezza acquisita nell’uso dell’italiano parlato rende il dialetto disponibile per avventure artistiche, che comunque ne testimoniano la vitalità, dalla poesia alla musica pop;
- l’invadenza dell’inglese è indubbia, tuttavia è ancora integro sia il lessico fondamentale (vale a dire le poco più di 2000 parole «di altissima frequenza, le cui occorrenze costituiscono circa il 90% delle occorrenze lessicali nell’insieme di tutti i testi scritti o discorsi parlati»)1, sia, almeno in gran parte, quel “lessico della conversazione generica” che impegna ciascuno di noi diverse ore al giorno, ossia le chiacchiere in famiglia o con estranei – in casa, al bar, in treno, in ufficio, nelle sale d’attesa – su spese, tempo, salute, bambini, animali, scuola, cucina, sport2. Alcuni settori in forte, e certo fastidiosa, espansione, intaccano solo in superficie l’epidermide linguistica. Qualche anno fa sono stati segnalati il Last cry di un negozio di abbigliamento (grottesca riverniciatura del vecchio Dernier cri) e il Free hair di una parrucchiera fiorentina che, con tutta evidenza, si sarà fatta pagare regolarmente messe in piega e colpi di luce3: se questo è il livello di anglofonia di due commercianti di una grande città, possiamo stare tranquilli sul minacciato naufragio dell’italiano. Certo, molti anglicismi inerziali si diffondono da noi per sciatteria, orecchiamento della moda del momento, superficialità: dal Ministero del Welfare, al prime time fondamentale per l’audience, all’e-book. È sacrosanto reagire, proponendo sostituzioni scientificamente fondate e guardando a quel che avviene in francese e spagnolo4: tuttavia l’ondata si ridurrà – se si ridurrà – non con interventi dall’alto, ma solo se le istituzioni (a cominciare dai politici), i direttori delle reti televisive e dei grandi giornali daranno il buon esempio, attraverso forme di autodisciplina liberamente scelte.
L’unica reale fonte di preoccupazione sta nella tentazione di adottare sistematicamente l’inglese in alcune aree scientifiche: Arcangeli ha ricordato che dal dicembre 2000 la Facoltà di Medicina di Oslo ha introdotto l’inglese «al posto del norvegese, come lingua obbligatoria nella comunicazione tra docenti e studenti» (ma consola il fatto che, nei mesi successivi, Svezia e Ungheria abbiano preso iniziative per tutelare le rispettive lingue)5. È certamente bene che ogni diciottenne dell’Unione Europea sappia cavarsela con l’inglese: ma guai se, per questo, l’italiano dovesse rinunciare alla sua sovranità linguistica in questo o quel settore scientifico, dalla biologia alla fisica all’economia. Allora sì che da lingua rischierebbe di diventare un vernacolo, buono per le contingenze della vita quotidiana ma incapace di affrontare le grandi sfide del sapere intellettuale. Sento già qualcuno obiettare: suvvia, ricorrere all’inglese in un àmbito così ristretto come la docenza universitaria di una singola facoltà non crea sconquassi, anzi consentirebbe ai futuri medici di muoversi con pieno agio nei congressi internazionali. No: come il Peter Schlemihl di un famoso racconto di Adalbert von Chamisso che vende al diavolo la propria ombra ma poi, divenuto ricco, si accorge che tutti lo evitano, perfino la donna amata, così, svendendo porzioni di lingua, in apparenza marginali, si colpirebbe al cuore quella stessa lingua che, diceva Manzoni, «o è un tutto o non è». Alle corte: i medici e tutti coloro che devono servirsi indispensabilmente dell’inglese per ragioni professionali già lo praticano (e lo pratica, anche indipendentemente dalle conoscenze acquisite a scuola, la maggioranza dei giovani, abituati a muoversi e a comunicare con coetanei stranieri fin dall’adolescenza).
D’altra parte, parliamoci chiaro: nei posti di lavoro in cui si richiede una «perfetta conoscenza dell’inglese parlato e scritto», il parlante madrelingua (inglese, americano, australiano o magari cittadino dell’Unione Indiana) sarà per forza di cose sempre preferito al pure attrezzatissimo parlante di inglese come lingua seconda. Ha ragione Marc Fumaroli il quale, senza complessi d’inferiorità linguistica come ogni francese, un anno fa dichiarava: «Io sono profondamente ostile al basic english come lingua comune degli europei. L’importante è che ogni cittadino conosca a fondo la sua lingua materna. Le 150 parole dell’inglese da aeroporto si imparano quasi automaticamente, ma non devono diventare l’idioma dell’Europa»6.
Il mio moderato ottimismo si riduce, o scompare del tutto, se dal parlato passiamo allo scritto. Come scrive ancora De Mauro, è evidente l’«eccessiva disparità tra capacità di controllo del parlato e capacità di controllo, anzi di puro e semplice rapporto con lo scritto»7. La ragione fondamentale è ben nota: si legge poco. Si tratta di un male endemico della società italiana, non da oggi. Rispetto al passato – e qui immagino che De Mauro non sarebbe più d’accordo – c’è il fatto che la scuola ha via via ridotto da un lato lo spazio assegnato ai grandi classici letterari, con la conseguente fatica necessaria a impadronirsi della loro lingua attraverso l’umile e salutare disciplina della parafrasi costruita personalmente dal discente con l’aiuto delle note (e non preconfezionata nel testo, debitamente tradotto editorialmente in “italiano moderno”)8; dall’altro, più in generale, è caduto il tradizionale apparato coercitivo di un tempo, portando a un eccesso opposto: quello descritto con sapienza letteraria ma anche con diretta conoscenza della situazione da Paola Mastrocola in un suo libro recente9. Non si tratta di nostalgie per il bel tempo antico in cui un liceale riusciva senza fatica a leggere e capire un’ottava dell’Orlando Furioso senza doverla “tradurre” come avrebbe fatto o farebbe per un passo di Virgilio. Il rischio è quello di perdere il contatto con un lessico che per dignità semantica e spessore intellettuale supera il parlato quotidiano in cui siamo immersi per strada, ascoltando i grandi mezzi di comunicazione audiovisiva o girellando nei “canali chiacchiera” in rete10. Ma è un lessico tutt’altro che morto, o confinato soltanto nei classici che si leggono (o si leggevano) a scuola. Basta aprire un giornale per imbattersi in vocaboli ed espressioni che nessun cinquantenne diplomato definirebbe “difficili”, ma che un diciottenne scolarizzato11 di oggi potrebbe non capire.
Suggerisco un esercizio ai lettori che siano insegnanti di scuola superiore o semplicemente genitori di figli adolescenti. Nel «Corriere della Sera» del 31 marzo 2005 – che è esattamente il giorno in cui sto scrivendo queste righe – si legge la consueta Nota politica di Massimo Franco. Si chieda: a) di indicare un sinonimo adeguato per le parole in corsivo contenute nelle seguenti frasi: «sebbene il premier e i suoi vice abbiano cercato di accreditare un’immagine di tregua», «la diatriba sull’entità degli aumenti per il pubblico impiego», «Su questo la preoccupazione è speculare a quella di Berlusconi»; b) di individuare e correggere la parola sostituita da un parònimo, ossia da una parola simile ma di tutt’altro significato: «In cambio, il leader del centrodestra riassume il pericolo del comunismo che potrebbe provocare “qualcosa di negativo se i nostri avversari vanno al potere”» (riassume – riesuma), «la diatriba sull’entità degli aumenti per il pubblico impiego può precludere proprio ad un braccio di ferro postelettorale» (precludere – preludere), «l’incontro a Firenze con i giovani è stato un mezzo flop. Palazzo Chigi prescrive la scarsa partecipazione all’organizzatore» (prescrive – ascrive).
Sia chiaro: nessuna di queste parole si impara leggendo l’Orlando Furioso. Il fatto è che il cimento – l’attrito avrebbe detto Graziadio Isaia Ascoli – con un testo scritto in una lingua diversa da quella più spontanea ha sempre un forte potenziale educativo. È giusto puntare in tutti i modi a una lingua chiara ed elementare quando un’amministrazione comunale deve redigere un avviso che offre determinate opportunità ai pensionati di basso reddito: presumibilmente si tratta di cittadini di limitata istruzione (e magari anche con problemi di vista che renderebbero di per sé scoraggiante la lettura di un testo articolato e complesso). Ma è deleterio proporre a giovanissimi studenti solo testi elementari, ad usum puerorum, col proposito di eliminare il necessario sforzo, e anche la noia e la fatica sovente connessi al mestiere dell’apprendimento.
Torniamo al nostro esercizio. Può anche darsi ch’io sia stato troppo pessimista e che parole come accreditare, diatriba, speculare, riesumare, preludere, ascrivere siano pane quotidiano per i nostri ragazzi, che magari ne padroneggiano il significato anche al di fuori dei contesti d’uso, e sanno formare con esse infinite frasi: tanto meglio. Ma se non è così, occorrerà riflettere alla necessità che la scuola ha il dovere e la funzione di mettere in condizione gli alunni di dominare il lessico intellettuale e astratto indispensabile nella vita di relazione professionale, e non solo in essa. Può farlo in vario modo: non abbandonando la lettura dei classici (anche una pagina di Benedetto Croce o di Luigi Einaudi avrebbe un buon impatto educativo), e quindi avvezzando i discenti a una lingua limpida ma ben distinta e distante da quella più corrente; favorendo la lettura dei giornali in classe e badando non solo al contenuto ma anche al modo, generalmente impeccabile, in cui scrivono i grandi giornalisti; infine, non abbassando la guardia di fronte alla necessità di raggiungere certi obiettivi – in questo caso, ricordiamolo, stiamo solo parlando della capacità di leggere e comprendere un articolo generalista del più diffuso quotidiano nazionale – e di conseguenza sanzionando gli studenti che non si applichino con impegno: sarebbe ora che certi condizionamenti postsessantotteschi («La scuola che boccia è una scuola che boccia sé stessa» e simili) tramontassero definitivamente, così come sono diventati obsoleti i relativi slogan.
2. L’originaria proposta d’istituzione della CSLI si concludeva con un articolo dedicato alle «Attività» della stessa che contemplava l’«elaborazione di una grammatica “ufficiale” della lingua italiana» e la «compilazione di un dizionario dell’“uso”, da mantenere in costante aggiornamento». Si trattava di una proposta palesemente assurda: ma è inutile continuare a parlarne visto che nel nuovo testo della 993 (d’ora in poi NT993) non ce n’è più traccia. Allo stesso modo, attingendo a idee e considerazioni presenti nell’ampio articolo di Savoia (di qui le virgolette), credo che tutti, ma davvero tutti, possano concordare su alcuni punti:
- «importanza pedagogica della varietà delle lingue» (cfr. anche NT993, art. 2, comma 3, dedicato ai compiti del CSLI, punto g: uno di tali compiti è quello di «promuovere l’insegnamento delle lingue straniere, quali fattori di diversità culturale e non di ibridazione, anche allo scopo di favorire le conoscenze linguistiche necessarie per la costruzione dell’Unione europea»)12;
- «qualsiasi lingua viva, effettivamente usata dai suoi parlanti, è soggetta a cambiare»: incontestabile. Naturalmente si tratta di chiedersi se un intervento dall’alto – chiamiamolo pure “dirigistico” – possa essere efficace nei ben definiti àmbiti espressamente previsti dall’art. 2, comma 3, punti a, b, c, vale a dire rispettivamente: interventi per la semplificazione linguistica nelle pubbliche amministrazioni; promozione dell’«uso corretto della lingua italiana» e dell’«italofonia» nelle scuole (la formulazione, anche qui, è un po’ ingenua, visto che non mi risulta l’esistenza di scuole in cui si faccia lezione in dialetto: ci si riferirà all’ortoepia); coniazione di neologismi o italianizzazione di forestierismi già circolanti nell’ambito della terminologia («promuovere l’arricchimento della lingua italiana con lo scopo primario di rendere disponibili nuovi termini […] favorendo l’uso della lingua italiana nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione»). Si tratta, come si vede, di obiettivi circoscritti, che possono essere condivisi o no, ma che in nessun caso configurano la pretesa – che sarebbe indubbiamente velleitaria – di modificare il corso della lingua di cui solo la società dei parlanti è titolare. Per scendere al concreto: rientrerebbero in questa prospettiva le iniziative già da tempo avviate (Sabino Cassese, Alfredo Fioritto, etc.) per rendere più trasparente la lingua dell’amministrazione pubblica; l’attenzione all’ortoepia da parte degli insegnanti, così come viene abitualmente richiesto agli insegnanti di una lingua straniera (qui sarei d’accordo solo come generico auspicio: la storia linguistica italiana è diversa da quella della Francia e la persistente varietà di accenti regionali è costitutiva al nostro essere italiani; in nessun caso, poi, mi sembrerebbe sanzionabile – per esempio, con l’esclusione da un concorso per accedere all’insegnamento o alle SSIS – la persistenza di accenti regionali in un insegnante); la messa a punto di termini ben coniati su richiesta dell’industria, delle amministrazioni o di altri enti alle prese con l’innovazione e con la necessità, o l’opportunità, di individuare nuovi nomi per nuovi prodotti o procedure;
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la «“difesa della lingua” non può che passare attraverso la valorizzazione di una scuola pubblica culturalmente ricca e sufficientemente attrezzata». Giusto. In proposito, NT993 sembrerebbe un po’ elusivo: della scuola si parla solo nel già citato comma 3 dell’art. 2, punto b, dunque per un aspetto francamente marginale, e nel comma 4 dello stesso articolo, là dove si dice che i «comitati scientifici di cui all’articolo 1, comma 4, hanno il compito di svolgere o promuovere studi scientifici sulle questioni inerenti all’uso corretto della lingua italiana e di fornire ai diversi operatori culturali e in particolare agli operatori scolastici basi solide relativamente alla conoscenza delle strutture grammaticali e lessicali della lingua italiana» (corsivo mio). In ogni modo, tra i componenti del CSLI si prevede nientemeno che il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Tutto ciò fa intravedere la possibilità, anche senza modificazioni dell’attuale proposta di legge, che la scuola possa (come dovrebbe) essere il luogo privilegiato dell’azione del CSLI.
3. Da storico della lingua, insegnante e cittadino della Repubblica – tre buoni motivi per essere sollecito delle sorti della lingua italiana – mi chiedo a questo punto: che giudizio dare del NT993 così com’è stato riformulato? È un’occasione da non lasciarsi sfuggire, in quanto positiva attenzione delle istituzioni alla “questione della lingua”, oppure una pericolosa o almeno importuna ingerenza della classe politica, irriguardosa delle specifiche competenze degli addetti ai lavori?
C’è un punto che ha sollevato obiezioni generali nella classe accademica e un po’ in tutti coloro che hanno commentato la proposta: il presidente del CSLI è il Presidente del Consiglio dei Ministri. Citiamo esemplarmente una di queste obiezioni, quella di Nicola Tranfaglia13, per il quale il progetto si caratterizza tra l’altro per il fatto di «prevedere come Presidente del Consiglio – non si crederebbe ma è proprio così – il capo del governo nazionale, cioè il noto ed esperto studioso della lingua italiana Silvio Berlusconi». Ora, è evidente che la proposta di legge – qualsiasi proposta di legge – indica una carica, non l’uomo politico che in un certo momento la ricopre: una reazione del genere si spiega solo con la scarsa popolarità di Berlusconi presso larghi strati intellettuali e col sospetto che la sua longa manus imprenditoriale possa estendersi anche a un ente immateriale come la lingua14. Accanto a ciò, è emersa anche la lagnanza sull’eccessivo peso della classe politica rispetto ai rappresentanti delle istituzioni culturali o ai linguisti: oltre al Presidente del Consiglio, ben cinque ministri (dell’Istruzione, dei Beni culturali, degli Esteri, per gli Italiani nel mondo, delle Comunicazioni), oltre a un segretario nominato dal Presidente del Consiglio. Dunque, sette membri di estrazione governativa rispetto a cinque membri “laici”, come si usa dire (rappresentanti dell’Accademia della Crusca, della Società Dante Alighieri, dell’Accademia dei Lincei, delle Università per Stranieri di Perugia e Siena, dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana); il Presidente del Consiglio può integrare il CSLI «con altri membri in rappresentanza dei comitati scientifici […] e di altre organizzazioni culturali italiane e straniere espressione di comunità italofone o di origine italiana».
Due parole di commento. A differenza della grande maggioranza dei miei colleghi, non trovo motivi di scandalo nel fatto che in un organismo del genere siano rappresentati a così alto livello membri del potere esecutivo. Anzi: vedo in ciò una garanzia sulla possibile efficacia delle iniziative assunte dal CSLI, a partire dalla previsione di una copertura finanziaria delle stesse. Indubbiamente, occorre riequilibrarne le componenti, dando più spazio a quella “laica” che, di fatto, dovrebbe essere quella propositiva: sarebbe ragionevole prevedere un numero pari delle due componenti e sottrarre alla discrezionalità del Presidente l’integrazione di «altri membri in rappresentanza dei comitati scientifici», stabilendo che tale integrazione debba essere decisa con maggioranza qualificata del CSLI.
Con un semplice aggiustamento del genere, il rischio (teorico) che il governo di turno imponga scelte cervellotiche in seno al CSLI (una tassa sulle parole straniere, l’obbligo di adoperare egli invece di lui come pronome soggetto, o magari l’uso del dialetto nel primo anno della scuola elementare) sarebbe fugato e la componente “laica” avrebbe il peso che le spetta. Ma arriviamo alla questione di fondo: servirebbe a qualcosa un organismo del genere? Ritengo di sì, e proverò ad argomentare la mia convinzione per singoli punti, non rinunciando a una possibile esemplificazione:
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Lingua italiana a scuola. Come ho già osservato, per me è questo il punto fondamentale per la “difesa” di una lingua. Il CSLI potrebbe intervenire sia su questioni di largo respiro sia su questioni particolari. Tra le prime, si può citare l’esigenza che i futuri insegnanti di materie letterarie ricevano una preparazione linguistica adeguata15, oppure la fattiva collaborazione con altre istituzioni che operano in questo campo (un esempio tra tutti: l’INVALSI, l’“Istituto nazionale per la valutazione del sistema d’istruzione e di formazione”, interessato a monitorare le competenze acquisite dagli studenti della scuola primaria e secondaria di primo grado in alcune aree disciplinari essenziali, tra le quali la lingua madre). Tra le seconde, i vari possibili interventi relativi alla riforma scolastica. Se il CSLI fosse già attivo, e avesse le competenze che sto auspicando, potrebbe dire la sua sulla riforma delle superiori di cui si sta parlando in questo momento (primavera 2005): il progetto di ridurre un’ora di italiano nel primo anno della scuola superiore è assolutamente da respingere, tenendo conto dei carichi didattici che già pesano sull’insegnante di italiano. Il quale, come è ben noto, non deve solo insegnare la lingua, ma anche occuparsi di letteratura (e non solo di quella nazionale) e fungere da collettore culturale per i vari problemi “di attualità” che è giusto siano affrontati a scuola. In una situazione del genere ridurre il già esile spazio assegnato all’italiano nella scuola è assurdo: e un CSLI che si esprimesse contro questo progetto – proprio per la rappresentatività politica dei suoi componenti, che includono il ministro dell’Istruzione – lo renderebbe ben difficilmente perseguibile;
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Lingua italiana all’estero. Il 18 febbraio 2005 i giornali hanno pubblicato la notizia che l’italiano era stato escluso dalle lingue ammesse nelle conferenze stampa dei commissari, tranne che nella seduta del mercoledì. La decisione (successivamente rientrata) sarebbe stata grave, anche in termini di politica internazionale: «risulta davvero assai difficile credere – ha scritto Ernesto Galli della Loggia – che un Paese la cui lingua è considerata poco importante possa poi rivestire un ruolo politico primario»16. Nel coro delle reazioni suscitate in Italia (tra i membri del governo, ad esempio: Fini, Pisanu, Castelli) è mancata proprio la voce del Presidente del Consiglio; stando al resoconto dei giornali (per esempio il «Corriere della Sera» del 21 febbraio 2005), Silvio Berlusconi avrebbe deplorevolmente minimizzato il problema: «L’importante è che ci si capisca: in Europa le lingue fondamentali sono tre, francese, inglese e tedesco». È lecito credere che, se Berlusconi fosse stato anche presidente del CSLI, le prevedibili reazioni degli altri membri del Consiglio, politici e “laici”, lo avrebbero facilmente convinto della miopia di una tale dichiarazione. Il problema non è solo di prestigio; è anche un problema economico. Oggi l’italiano è la quinta lingua più studiata nel mondo (la quarta nei paesi anglofoni): le cifre assolute non sono altissime, ma nemmeno disprezzabili ed è forte la corrente di simpatia e di interesse che proviene da aree tradizionalmente legate alla cultura italiana (Argentina) ma anche da aree più appartate (come la Moldavia). Tutto questo ha una ricaduta anche economica che non riguarda solo le attività più direttamente coinvolte (corsi d’italiano, relativa editoria, etc.): l’interesse per una cultura può implicare un rilancio turistico (grave la crisi dell’Italia in questo settore, che è precipitata dalla prima posizione occupata negli anni Settanta alla quinta attuale, dopo Francia, Spagna, Stati Uniti e Cina) e in generale l’attrazione per prodotti tipicamente legati al “made in Italy”. Oggi la promozione dell’italiano nel mondo poggia essenzialmente su due pilastri: da un lato la “Società Dante Alighieri” che, grazie al suo antico e capillare radicamento e al lungimirante dinamismo degli attuali dirigenti, svolge un ruolo indispensabile nonostante un finanziamento pubblico irrisorio; dall’altro, gli Istituti italiani di Cultura. Se si ritiene di dover potenziare questi vettori dell’italiano nel mondo, è evidentemente indispensabile che nel CSLI siano rappresentati anche il titolare degli Esteri e quello per gli Italiani nel mondo: solo un organismo di tale livello può eventualmente impegnarsi per ottenere dal Governo (quello stesso governo, ribadisco, che viene largamente rappresentato nel CSLI) maggiori risorse da destinare al settore;
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Lingua italiana e immigrati. Il problema dell’integrazione degli immigrati nella società italiana è un problema centrale, destinato ad assumere sempre maggiore importanza nel corso dei prossimi anni, per ragioni notissime: pressione demografica dei Paesi meno avvantaggiati, invecchiamento della popolazione italiana, richieste del mercato del lavoro interno. L’acquisizione della lingua del paese ospitante è in fondo l’unico passo che si può legittimamente e democraticamente chiedere al cittadino straniero perché egli possa sentirsi come uno di noi, pur mantenendo le sue tradizioni in fatto di religione, alimentazione, abbigliamento. I modi per far fronte a quest’esigenza sono molteplici: intanto censire (e sostenere) le varie, meritorie iniziative messe in atto dal volontariato, in Italia o all’estero (con corsi di formazione rivolti ai cittadini prima che emigrino); provvedere a corsi di italiano per adulti, che si concludano con un diploma spendibile nel mondo del lavoro; o ancora, promuovere iniziative ad alto contenuto simbolico (e perlopiù a bassa spesa) per premiare i successi linguistici di studenti stranieri in Italia: per esempio un premio nazionale per i migliori risultati conseguiti nell’italiano scritto da un ragazzo di scuola media nato fuori d’Italia.
Sono solo alcuni esempi. In ogni caso, non mi sembra che la carne al fuoco sia poca o di cattiva qualità. Non so se gli estensori del progetto avessero esattamente pensato a queste direzioni applicative. Però, leggendo l’art. 2 di NT993, credo che tutti e tre questi àmbiti di intervento vi rientrerebbero senza difficoltà:
Art. 2
(Finalità e compiti)
- Il CSLI sovrintende, nell’ambito degli orientamenti generali definiti dal Governo, alla tutela, alla valorizzazione della lingua italiana in Italia e all’estero, anche nell’ambito della più generale promozione della cultura nazionale, e collabora con istituzione pubbliche e private che abbiano analoghe finalità.
- Il CSLI formula le sue proposte al Governo, indica le modalità d’intervento e dà il proprio parere sulle questioni inerenti all’italofonia, redigendo un rapporto annuale sullo stato della lingua italiana.
Qualcuno potrebbe storcere il naso su quegli «orientamenti generali definiti dal Governo». Ma proprio chi sa che cos’è una lingua, come funziona, quanto molteplici siano le forze in gioco dovrebbe tranquillizzarsi: non riesco a vedere (nel 2005 e in un’Italia globalizzata!) nessun rischio di dittature linguistiche. Vedo solo la possibilità, per la prima volta, di passare da sterili dichiarazioni di principio, che non costa nulla condividere ma che non incidono minimamente sulle cose, a interventi concreti in settori delicati (in primo luogo la scuola), il cui assetto dipende dalle politiche del governo di turno e dalla conseguente possibilità di investimento finanziario. Pensare che, debitamente bilanciata nei rapporti di forza, la componente “laica” del CSLI sia fagocitata da occhiute manovre dei “governativi” mi sembra sinceramente fuori dalla realtà. O almeno: mi sembra tradire una preliminare e autolesionistica sfiducia, da parte della classe intellettuale di questo Paese, sulla propria capacità – una volta che se ne dia l’occasione – di incidere sulla realtà socioculturale in tutti quei settori (che non sono pochi né di poco momento) in cui la padronanza della lingua è una componente importante.
3Cfr. Gloria Italiano, Parole a buon rendere ovvero l’invasione dei termini anglo-italiani, Fiesole, Cadmo, 1999, pp. 28, 37.
10 Faccio mio volentieri il sostituto proposto da Claudio Giovanardi-Riccardo Gualdo, Inglese e italiano 1 a 1, cit., pp. 120-121 per le chat lines.
- Questo articolo si può citare nel seguente modo:
- Luca Serianni, Ancora sul Consiglio Superiore della Lingua Italiana, in «Italianistica Online», 18 Febbraio 2006, http://www.italianisticaonline.it/2006/serianni-lido/
Questo articolo
- Scritto e pubblicato
- Sabato 18 Febbraio 2006
da Luca Serianni
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