Giuseppe Regalzi
Vino vecchio
in otri nuovi. La letteratura scientifica nell'era dell'e-book
La
morte del libro è una notizia che si è rivelata ampiamente
esagerata. Mentre il futuro del libro a stampa potrebbe in effetti
essere a rischio – ma soltanto, direi, se si realizzassero le
promesse dell’e-paper o dell’e-ink
– il futuro del libro in quanto testo, cioè successione lineare
di segni grafici, sembra invece assicurato. Man mano infatti che si
vanno accumulando le prime esperienze concrete dell’editoria
digitale, appare sempre più chiaro come link ipertestuali e
contenuti multimediali possano arricchire, ma non rivoluzionare la
struttura dei nostri testi: elettronici sì, ma pur sempre libri.Il futuro assomiglierà dunque al passato? Più
scintillante, magari, con ‘libri’ dalle pagine di plastica
flessibile, con filmati al posto delle immagini, con collegamenti
ipertestuali, ma per il resto sostanzialmente invariato? Non
proprio.
Le tecnologie non hanno solo effetti diretti; al di là degli ultimi
gadget, ai quali resta incatenato lo sguardo di tecnofili e
tecnofobi, sono le conseguenze indirette le più importanti, quelle
che vale la pena di indagare. E le tecnologie combinate del libro
elettronico e di Internet possono produrre degli effetti collaterali
imprevisti ed estremamente interessanti.
Consideriamo per esempio un fatto ben noto: il costo marginale di un
e-book distribuito attraverso la rete (cioè il costo che si
sostiene per produrne una copia in più) è a tutti gli effetti
pratici uguale a zero;
e copiare un file è tecnicamente alla portata di ciascuno. Ciò
sembra avere per autori ed editori orientati al mercato soprattutto
conseguenze indesiderate: le copie pirata gratuite ne mettono i
diritti a repentaglio, obbligandoli a ricorrere a quella triste
panoplia di file criptati, formati chiusi, licenze d’uso,
password, che finirà essa stessa per ammazzare nella culla il libro
elettronico commerciale prima ancora che ci riesca qualsiasi pirata.
Del resto, è difficile immaginare un sistema di salvaguardia
ragionevolmente semplice che sia anche del tutto sicuro: una volta
che i dispositivi di lettura per e-book avranno eguagliato
l’ergonomia del libro a stampa tradizionale, sembra inevitabile
che per i libri si ripeterà ciò che oggi succede nel mondo della
musica, da Napster a Gnutella; e non è poi troppo azzardato
immaginare come esito ultimo un futuro di neo-dilettantismo, con gli
autori costretti a cedere le proprie opere gratuitamente e a campare
di donazioni o – in caso di successo – di letture e incontri
pubblici, copie autografate (su carta!), e diritti di sfruttamento
cinematografico (se il cinema non subirà la stessa sorte,
naturalmente...).
L’editoria accademica sembrerebbe afflitta dalle stesse
preoccupazioni, almeno a giudicare da molte delle iniziative fin qui
avviate, con i loro accessi severamente sorvegliati, le connessioni
sicure per il pagamento con carta di credito, e così via. È vero
che i lettori sono abituati a consultare riviste e monografie
scientifiche in biblioteca, sicché possono lasciar gestire ad altri
i sistemi di salvaguardia del copyright; ma è certo un’ironia che
nell’epoca della Rete onnipresente si debba affrontare un viaggio
anche di centinaia di chilometri per andare a consultare un libro elettronico.
Prima o poi, suppongo, le biblioteche locali saranno in grado di
offrire qualche analogo del prestito inter-bibliotecario anche per
gli e-book di interesse più esoterico; ma questo comporterà una
ristrutturazione profonda del sistema. Il fatto che i prezzi dei
libri e delle riviste scientifiche restino relativamente alti anche
nelle versioni digitali non contribuisce certo a facilitare la
transizione.
Molti ricercatori (e molti manager della ricerca) soffrono di una
curiosa cecità nei confronti di un fatto fondamentale: l’effetto
collaterale della tecnologia – la riproducibilità infinita e
gratuita dei testi – non entra in collisione con l’interesse
dell’autore di saggi e articoli scientifici, come nel caso di chi
scrive allo scopo di trarre di che vivere dall’esercizio delle
arti letterarie; al contrario, la tecnologia e l’interesse degli
autori si muovono qui nella stessa direzione. Un ricercatore non
scrive i suoi saggi per le royalties: le riviste scientifiche
non pagano nulla, come si sa, e anche le monografie molto raramente
raggiungono tirature degne di nota; solo gli autori dei manuali più
fortunati possono ricevere qualche soddisfazione economica. Un
ricercatore scrive per stabilire e consolidare la propria
reputazione presso i suoi pari; scrive per essere notato e
apprezzato. La possibilità di raggiungere il più alto numero
possibile di lettori, che verrebbe garantita dalla distribuzione
gratuita in rete, non è un problema ma un’opportunità.
Quando alla fine dello scorso anno abbiamo deciso di distribuire gli
atti di un piccolo convegno di orientalisti, l’organizzatrice (dott.ssa
Chiara Peri) ed io non abbiamo avuto alcuna esitazione nello
scegliere la formula dell’e-book gratuito. Certo, la nostra era
un’iniziativa modesta (i relatori erano quasi tutti studiosi alle
prime armi, e il convegno autogestito), ma proprio per questo non
c’era ragione di rinunciare anche solo alla possibilità di una
diffusione più ampia.
Nella prefazione a quegli atti
elencavo alcuni dei vantaggi offerti dalla distribuzione gratuita in
rete. In gran parte gli stessi vantaggi sarebbero garantiti anche
dagli e-book a pagamento – ma già il solo fatto di imporre un
costo limita fatalmente la capacità delle biblioteche di tenere
testa al flusso delle pubblicazioni, soprattutto se si tiene conto
delle tendenze inflative determinate dalle concentrazioni editoriali
in corso (i monopoli e gli oligopoli non affliggono solo i mass
media!), che sembrano riguardare anche le edizioni digitali. I
costi esistono, ovviamente: sembra improbabile che il volontariato
possa arrivare ovunque. Ma una gestione corretta del processo
editoriale e l’impiego di software più adeguati degli attuali
potrebbero contenere le spese entro la portata dei contributi
normalmente messi a disposizione dagli enti di ricerca.
Segnalavo in quell’occasione come la letteratura scientifica possa
essere messa in questo modo a disposizione del pubblico generale,
che è quello che ne paga in ultima analisi il conto.
L’affermazione può sembrare troppo ottimistica per quanto
riguarda le tendenze attuali del «pubblico generale»; ma con
questa espressione non mi riferivo a tutto il pubblico; e
solo un pessimismo di maniera può minimizzare le esigenze culturali
che sono presenti (o possono essere suscitate) all’interno del
pubblico. Aggiungerei che esiste anche un pubblico accademico che
per ragioni economiche non ha oggi accesso al meglio della
produzione scientifica mondiale: per i ricercatori del Terzo Mondo
(e di riflesso, per i loro paesi) l’accesso gratuito sarebbe
d’interesse vitale.
Ma il beneficio maggiore, va ripetuto, rimane quello del ricercatore
che rende disponibili nella maniera più ampia le proprie
pubblicazioni. Non insisterò qui ad elencare argomenti e a
suggerire strategie: meglio di chiunque altro lo ha fatto Stevan
Harnad, in una lunga serie di interventi.
Certo, non sfuggirà come tematiche di questo genere siano nate e
vengano più intensamente dibattute in un mondo, quello
anglosassone, dove alta mobilità degli studiosi e criteri aperti di
valutazione rendono particolarmente vantaggiosa la disseminazione
dei propri risultati scientifici. Nell’università italiana il
candidato locale già destinato a vincere il concorso bandito dalla
sua alma mater rimarrà ovviamente più freddo di fronte a
certe possibilità: è già conosciuto a sufficienza da chi lo deve
giudicare. E tuttavia un interesse disinteressato a far conoscere i
propri risultati, a non rendersi irrilevanti, a ricevere critiche
costruttive, sopravvive in quasi tutti i cuori: c’è qualcosa di
più, nella vita scientifica, del mero «fare punteggio».
Per riviste e monografie elettroniche vale dunque il principio che
se il contenuto (e il formato in cui viene espresso) non si discosta
poi molto da quello tradizionale della stampa, la novità del
contenitore fa sì che le forme di distribuzione possano e debbano
risultare estremamente innovative. Cosa accade invece nell’era
dell’e-book agli strumenti e ai sussidi eruditi, alle opere di
consultazione per ricercatori? È quanto vorrei esaminare più in
dettaglio nel seguito.
Nelle forme rivolte al grande pubblico le «opere di riferimento»
sono state da sempre ritenute le più idonee alla digitalizzazione.
Per questi titoli, spesso necessariamente ingombranti (e di
conseguenza costosi), nonché soggetti a una rapida obsolescenza, il
ricorso al digitale è sembrato un modo di eludere quella che
potremmo chiamare la Sindrome Treccani: per la quale si è costretti
a consultare oltre all’enciclopedia l’aggiornamento, e
l’aggiornamento dell’aggiornamento, e l’aggiornamento
dell’aggiornamento dell’aggiornamento... Niente liste
imbarazzanti di corrigenda, inoltre, aggiunte all’ultimo
momento utile in qualche pagina semi-nascosta.
Nella realtà le cose vanno un po’ diversamente, com’è noto: le
versioni digitali vengono distribuite più che altro in Cd-Rom o Dvd,
il che ne limita le potenzialità – ma spesso non i prezzi
–mentre la conversione in siti web a pagamento non ha per molti
motivi incontrato il favore del pubblico (si pensi all’esperienza
dell’Encyclopaedia Britannica). Nel complesso comunque
l’editoria digitale ha qui uno dei suoi punti di forza; e non c’è
ragione di ritenere che le cose debbano andare diversamente per
quello che riguarda le opere di consultazione erudite.
Se ci poniamo anche per questo settore il problema di quale
struttura assumeranno gli e-book, la risposta non sarà molto
differente da quella che ci siamo dati al principio. Esaminiamo per
esempio il Comprehensive Aramaic Lexicon,
una meritoria iniziativa in rete dello Hebrew Union College di
Cincinnati. La consultazione viene eseguita attraverso i
tradizionali campi in cui digitare la parola cercata, che in questo
caso non solo hanno l’usuale aspetto dimesso, ma sono anche
scomodi: bisogna utilizzare uno schema di traslitterazione della
lingua semitica non molto intuitivo (immettere direttamente i
caratteri in uno degli alfabeti originali sarebbe tecnicamente
impegnativo a monte, e non semplificherebbe affatto le cose a
valle); qualcosa di analogo succede con la versione elettronica del
Liddell-Scott
del Progetto Perseus. È evidente che la soluzione tradizionale di
un dizionario a stampa è imbattibile per quello che riguarda la
praticità d’uso. Le pagine web mal si prestano allo scopo:
abbiamo bisogno di e-book che ricalchino più da vicino la struttura
tradizionale del libro di carta, integrata e non sostituita dalle
funzioni di ricerca. Penso che il discorso si possa estendere a
molti altri tipi di testo di consultazione; farei un’eccezione
solo per le concordanze, che in forma cartacea non possono emulare
le possibilità di quelle digitali. Naturalmente la mole di molte di
queste opere rende difficile per adesso la presentazione in forma di
e-book, a causa delle limitazioni nella velocità delle connessioni
e nella capacità dei dispositivi di memoria oggi disponibili; ma
prima o poi ci si arriverà – anche se indubbiamente ci vorrà
molto, molto tempo prima di poter scaricare dalla rete Aufstieg
und Niedergang der römischen Welt...
Questo non vuol dire naturalmente che la tecnologia digitale non
renda fattibili cose difficili o impossibili per la tipografia
tradizionale; proporrò qui due esempi tratti dal mio campo di
studi, l’ebraistica, ed uno che riguarda il campo più generale
della storia del Vicino Oriente antico.
Come si sa, la maggior parte degli studiosi moderni ritiene che il
Pentateuco non sia opera di Mosè, ma che fonda invece assieme
diversi documenti originariamente separati, benché dal contenuto più
o meno parallelo. Si pone pertanto il problema di segnalare al
lettore i fili strettamente intrecciati che compongono il testo tràdito,
anche per facilitare l’intelligenza di passi spesso pieni di
contraddizioni altrimenti insanabili. L’unico sistema sembra
quello di utilizzare vari colori come sfondo per il testo; e infatti
fu questa la soluzione adottata da Paul Haupt e collaboratori a
cavallo fra Otto e Novecento, in quella che si chiamò popolarmente The
Polychrome Bible.
Si tratta chiaramente di un compito impegnativo, se eseguito con i
mezzi tradizionali; è anche per questo che la Bibbia di Haupt è
rimasta incompleta, senza trovare mai sostituti, e si disintegra
oggi sugli scaffali più alti delle biblioteche universitarie. Ma il
compito diventa banale se l’edizione si smaterializza: è quanto
ho fatto io stesso, preparando una versione di prova (limitata alla
Genesi, e per ora solo in formato Html) di quella che mi piacerebbe
chiamare The Polychrome eBible, e che spero di mettere prima
o poi in rete: un servizio utile, credo, perfino per quelli che
rifiutano la validità dell’ipotesi documentaria.
Il lessico della lingua ebraica è costruito attorno a una serie di
radici che sono in genere facilmente identificabili; a tal punto che
il miglior vocabolario della lingua classica riunisce i lemmi per
radici, non in ordine alfabetico. La cosa risulta preziosa per
identificare il senso di parole di rara attestazione, comparandole
con altre derivate dalla stessa radice; ma capita naturalmente che
in alcuni casi la radice non sia facilmente identificabile; e
scoprire dove Brown, Driver e Briggs abbiano mai rubricato la parola
in questione diventa un compito decisamente snervante. Si potrebbe
immaginare allora un dizionario elettronico ‘a geometria
variabile’, in cui l’ordine dei lemmi vari a un comando:
alfabetico, per radici, inverso, etc., sempre conservando in ogni
caso l’impianto visivo tradizionale.In una nota finale alla prefazione del suo manuale Antico
oriente. Storia società economia, Mario Liverani scriveva:
La parte «illustrativa»
(tavole, figure, inserti documentari) è piuttosto da intendersi
come una parte «documentaria», che affianca funzionalmente
l’esposizione continua …
Per ampia che sia, questa parte documentaria non può che essere
esemplificativa ed occasionale. Ad altro livello di
approfondimento (e a ben altra disponibilità di spazio) si
collocherebbe il progetto di corredare il testo di materiali
illustrativo-sintetici in maniera sistematica, di trasformare cioè
una storia-«racconto» in una storia-«tabella». Personalmente
ritengo che si debba procedere in questa direzione, ma penso che i
tempi non siano ancora maturi.
Mi
sembra che la possibilità di inserire link attivi in un testo
elettronico avvicinerebbe la maturità dei tempi per un’impresa di
questa portata. E una volta superate le limitazioni tecniche di cui
dicevo sopra, anche la «disponibilità di spazio» apparirebbe un
problema molto più trattabile, se si abbandonassero gli atomi a
favore dei bit.
Ma come per le monografie e le riviste scientifiche, anche per gli
strumenti di ricerca e i sussidi eruditi gli effetti più profondi e
fecondi del progresso tecnologico sono quelli collaterali, che
investono il modo stesso di organizzare e fare ricerca.
Concentriamoci sulla possibilità, offerta dall’avvento del libro
elettronico, di aggiornare costantemente e a costo limitato i testi
prodotti. Un’opera di consultazione rappresenta sempre una sintesi
della ricerca passata e presente: pensiamo, solo per fare un
esempio, al SAHD (The Semantics of Ancient Hebrew Database), un
dizionario dell’ebraico classico che ha per scopo principale
quello di raccogliere per ciascun lemma tutte le interpretazioni più
significative proposte in passato. Benché per questa iniziativa sia
prevista una data di completamento, un aggiornamento continuo ne
costituirebbe lo sviluppo più logico, tanto più che del database
esiste una versione consultabile on-line.
Sarebbe naturale, per ogni autore di un’opera come questa, tener
conto dei nuovi risultati della ricerca man mano che vanno
apparendo, per salvare da una rapida obsolescenza il risultato delle
proprie fatiche. Ovviamente, a questa tendenza se ne contrappone
un’altra: quella che quasi inevitabilmente finisce per far
sbottare con un sonoro «Non ne posso più!» chiunque si sia
dedicato per un periodo troppo prolungato a uno stesso compito
erudito. Ma già adesso le opere di maggior respiro sono il frutto
di sforzi collettivi, oppure vengono ereditate col tempo da forze più
fresche; istituzioni scientifiche importanti si fanno carico di
coordinare e dare continuità a questo genere di imprese.
La possibilità di un aggiornamento costante porterebbe dunque quasi
inevitabilmente l’autore o gli autori del dizionario (o
commentario, o edizione critica, o raccolta di fonti) a effettuare
uno spoglio costante, tempestivo e sistematico della letteratura
corrente, da cui trascegliere e discutere il meglio della nuova
ricerca filologica e linguistica: in pratica offrendo uno status
quaestionis in divenire di un’intero campo di studio. Si noti
che il dizionario darebbe anche accesso diretto agli studi
esaminati, tramite link, se – com’è nei voti – la
pubblicazione digitale diventasse la pratica più diffusa.
Spostiamoci allora sull’altro versante, quello degli autori delle
ricerche originali. Oggi naturalmente nessuno pubblica un articolo o
un saggio per essere citato e approvato in un commentario o in
un’altra opera di consultazione, anzi considereremmo bizzaro
chiunque lo facesse: gli intervalli con cui vengono pubblicate opere
simili sono di norma troppo lunghi – talvolta rimangono tali anche
quando la pubblicazione è data per imminente... – o comunque
irregolari e imprevedibili; l’opera più autorevole è magari
uscita in un passato recente, oppure quelle che ambiscono a
raccoglierne l’eredità risultano alla prova dei fatti
insoddisfacenti. Ma se supponiamo che il libro elettronico abbia
partita vinta, e che quindi le opere autorevoli di riferimento in
ogni disciplina vengano costantemente aggiornate, ecco che
l’autore di un articolo o di un saggio potrebbe giungere a
valutare positivamente la nuova possibilità che gli si offre:
quella di vedere il suo lavoro approvato da un comitato scientifico,
e non genericamente come accade con una rivista scientifica, ma bensì
con l’indicazione tangibile di quale sia il contributo
all’avanzamento del sapere che quell’articolo o quel saggio
rappresentano. Quando la mia proposta di emendazione fa cambiare un
testo critico di riferimento, o quando la mia interpretazione di un hapax
guadagna il primo posto accanto al lemma nei dizionari più
consultati, la ricompensa che ricevo non potrebbe essere maggiore; e
la semplice menzione delle mie ipotesi come valide alternative alle
scelte degli editori viene al secondo posto in questa scala di
desiderabilità.
Non è insomma azzardato prevedere che in futuro i ricercatori
sottoporanno spontaneamente le proprie pubblicazioni ai responsabili
delle varie opere di riferimento. Ma in effetti, perché passare per
il tramite di una rivista? Se è sempre un comitato editoriale
quello che giudica il mio lavoro, e anzi alcuni dei suoi membri sono
gli stessi che fanno parte del comitato scientifico della rivista
corrispondente; se il dizionario biografico o la storia della
letteratura o la raccolta di frammenti papiracei sono pubblicati
sotto gli auspici della medesima istituzione che pubblica il Journal
o la Revue o i Rendiconti; se la pubblicazione è nei
due casi ugualmente celere (o ugualmente lenta, come capita...); se
in un caso e nell’altro l’accesso al mio articolo è immediato,
per mezzo di un apposito link: non è allora uno sviluppo razionale
la sostituzione graduale (anche se in ogni caso mai completa) delle
riviste con le opere di consultazione, come luogo in cui i risultati
della ricerca vengono resi pubblici?
Dalle prime Philosophical Transactions della Royal Society
fino ad oggi, le riviste scientifiche hanno assolto il compito di
rendere disponibili celermente i progressi della ricerca. Proporre
per lo stesso ruolo un’enciclopedia in molti volumi sarebbe stato
non dico folle ma più banalmente inimmaginabile: la necessità di
rieditare in continuazione tutto l’insieme avrebbe comportato uno
spreco immane (e ingiustificabile) di tempo e di risorse. Ma adesso
diventa per la prima volta concepibile un futuro in cui uno studio
delle variazioni atmosferiche stagionali su Plutone trovi
direttamente posto dopo la peer review in un’enciclopedia
delle scienze astronomiche, che riempirebbe se stampata mille grossi
volumi.
Quali vantaggi comporterebbe questa, che suggerisco di chiamare la pubblicazione
strutturata della ricerca? Mi sentirei di indicarne due:
1.
in primo luogo, diverrebbero possibili enormi progressi nella
reperibilità dell’informazione. Non sarebbero più articoli e
saggi a venire indicizzati, come succede nei repertori bibliografici
attuali, ma le singole ipotesi e i singoli dati presentati;
un’osservazione interessante avanzata en passant non
rischierebbe più di venire perduta. In ogni caso, avremmo
probabilmente una focalizzazione della ricerca, con un fiorire di
pubblicazioni centrate attorno a una singola proposta;
2.
la pubblicazione strutturata permetterebbe inoltre di rendere
visibile in ogni area l’ipotesi che guadagna il consenso degli
studiosi, o in alternativa di dichiarare un più prudente non
liquet. Naturalmente non si può scambiare il parere di un
comitato scientifico per il consenso generale; ma è probabile che
chi la pensa diversamente sia stimolato a tentare la confutazione di
ogni teoria discutibile, per quanto autorevolmente avallata. Avere
un punto di riferimento con cui consentire o da cui dissentire
costituirebbe uno sprone alla ricerca; oggi questo non sempre
accade.
Il
secondo punto costituisce anche una risposta all’obiezione più
prevedibile che il sistema di pubblicazione qui delineato può
suscitare: non favorirebbe tutto ciò un’idea monolitica e
autoritaria della scienza, in cui i vari contributi siano
etichettati rigidamente come buoni e meno buoni? Non si giungerebbe
all’imposizione di una ‘verità’ ufficiale, gestita da
comitati? Queste paure sono infondate, ritengo; e in ogni caso la
pluralità delle iniziative, e la relativa facilità con cui ne
potrebbero essere fondate di nuove, offriranno sempre una
salvaguardia contro ogni rischio di ossificazione della ricerca. Ciò
che dobbiamo temere non sono le valutazioni critiche, buone o
cattive che siano, ma che il nostro lavoro cada nel silenzio, magari
con la giustificazione del primato di una ‘tolleranza’ che
raccoglie tutte le voci e non ne ascolta veramente nessuna.
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